È scattata l’ora del VISUAL MERCHANDISING

Approfondiamo le tendenze retail con l’articolo di Fabrizio Patti per Retail & Food – uscita marzo 2013
Far innamorare i clienti di un negozio, renderli felici di comprare e di far parte di un mondo. È uno dei compiti del visual merchandising, versione più completa e commerciale della vecchia vetrinistica, che con ritardo prende piede anche in italia. Cosí per i “visual” non c’è crisi. ecco chi sono, come operano e che formazione hanno.
C’erano una volta i vetrinisti, artisti in grado di creare composizioni fantasiose, eleganti o provocatorie per attirare i clienti nei punti vendita. Oggi il loro ruolo si è evoluto. Meglio, si è andato a integrare, essendone inglobato, nel più ampio mondo del visual merchandising. L’arma in più dei negozi, quella in grado di ipnotizzare il cliente, rallegrarlo, fargli pensare “che sarà mai spendere qualcosina in più?” e fargli tornare la voglia, una volta uscito, di tornare al più presto.
Ma di che cosa si parla quando si parla di visual merchandising e chi sono i soggetti che se ne occupano lungo la filiera? Lo abbiamo chiesto a due visual merchandiser dal valore riconosciuto: il primo è Gianfranco Giacoma Caire, storica figura del settore e autore del libro “Visual Merchandising”, edito da “Creative Group”. Il secondo è Giovanni Licari, libero professionista e coordinatore del master serale di visual merchandising presso lo stesso Ied, oltre che docente al master diurno dello stesso istituto.
«Il visual merchandising riguarda l’esposizione della merce nel punto vendita» esordisce Giacoma Caire. «Ma non finisce lì: è una serie di fattori, di operazioni che vengono fatte nei negozi. Si parte dall’esterno, dall’insegna e dalla vetrina. Le vetrine devono essere allestite in maniera che catturino l’attenzione in pochi secondi, non più di tre, e servono per far entrare il cliente in un punto vendita. Sono lo specchio del negozio, dove va creata una rappresentazione teatrale». Questo è però solo il primo tassello. C’è poi l’esposizione sugli scaffali, che segue delle proprie regole, come il fatto che gli shelf di diversa altezza hanno diverso valore. «Il visual merchandiser sistema i prodotti nel punto vendita creando proposte – continua Caire –. Il cliente spesso non sa cosa comprare. Per esempio, nella moda, se si creano delle combinazioni di vestiti, sarà più facile che lo scontrino sia più alto». A completare il novero di accorgimenti nel punto vendita ci sono la temperatura, le luci, che non devono essere piatte, e il colore. Nel complesso devono creare un ambiente e raccontare una storia. «Ormai lo hanno capito anche negli ospedali – continua Caire –. La teoria del colore ci dice che questo influisce sulla psiche dell’uomo: racconta le cose, stimola l’organismo. Ora l’abbiamo chiaro, ma negli anni Ottanta ricordo che ci fu il periodo del minimalismo, con arredi asettici e freddi, che ricordavano delle sale operatorie». «Il visual merchandising consiste nel far vedere le merci – è la definizione di Licari –. Rispetto alla vetrinistica, «il valore del visual merchandising è che contempla spazi più allargati. Prevede il posizionamento degli arredi, le percezioni sui diversi sensi: vedere, sentire, odorare, toccare».
Ogni negoziante sceglie poi quale parte valorizzare di più: «Zara, per esempio, investe tantissimo sulle vetrine esterne, mentre il suo concorrente H&M, pur curando le vetrine, è molto più attento agli spazi interni».
In questo contesto, cruciale è anche il ruolo del personale, sia nell’assistenza alla vendita sia alla cassa: è infatti sia il luogo dove il cliente può avere un ripensamento, sia l’ultimo ricordo che rimane al consumatore.
Se negativo, condizionerà tutta la valutazione dell’esperienza. Non bisogna dimenticare, infatti, che tutto questo processo serve a vendere di più.«Il valore aggiunto di questa tecnica è quello che fa vedere le merci in un modo che possa dare dei risultati in termini commerciali – sottolinea Licari –. Ci sono statisti- che che mostrano come il visual merchandising aumenti le vendite».
La vetrinistica «fino a 20 anni fa era intesa come un’elaborazione del bello in termini visivi – aggiunge –. Il visual merchandising ingloba questa parte con una maggiore attenzione indirizzata alla parte commerciale».
Un esempio su tutti: l’Ikea, che ha creato un modo di vivere e di rappresentarsi grazie a un marketing dove il visual merchandising gioca un ruolo di primo piano.
Un’attività in salute
Quello che è certo è che «in un mercato in cui il cliente è protagonista – dice ancora Licari – sempre più aziende e settori prevedono queste strategie e finalmente le inseri- scono nei piani di marketing. è un fenomeno nato nella moda, ma che si è esteso a qualsiasi categoria commerciale. Io lavoro tantissimo con il food ma lo fanno anche i colorifici».
Pur essendosi sviluppato soprattutto nei Paesi anglosassoni, «oggi anche le aziende italiane hanno capito che i visual servono», secondo Licari. «Non c’è una parti- colare difficoltà – conferma Caire –. Le aziende in un momento così difficile richiedono visual esperti, uno o due per punto vendita, perché se un visual è bravo fa aumentare le vendite».
Una prospettiva condivisa da alcuni operatori del settore. «A oggi non ci lamentiamo particolarmente. Nel contesto non brillantissimo in cui siamo molte realtà hanno trovato lo stimolo per fare qualcosa in più che in momenti più tranquilli non erano portati a fare. Magari i budget di grandi aziende sono stati ridimensionati, ma lavoriamo con una pluralità di contesti tale da soffrire poco», dice Riccardo Gnani, dell’ufficio commerciale di Studio Stands, società di Travagliato (Bs) che produce soluzioni espositive e complementi d’arredo per negozi, su commissione.

Visualdisplay, di Udine, è invece specializzata nel lavorare per le brand company (cioè i produttori), creando espositori da terra e da scaffale e strumenti di visibilità integrati agli arredi dei punti vendita. Per la visual marketing advisor, Chiara Endrigo, «sicuramente è un mercato che è cresciuto tantissimo negli ultimi anni. Quando abbiamo iniziato, nel 1999, la comunicazione nei punti vendita era considerata molto marginale. Ma se una volta fatto 100 il budget di comunicazione di un marchio, 70 andava alla comunicazione istituzionale e 30 agli elementi “below the line”, come il visual merchandising e alle brochure, ora la proporzione si è invertita. Questo è dovuto anche alla crisi, perché le aziende sono più propense a investire su iniziative concrete e di prossimità piuttosto che su vaste campagne».

Free lance, interni e fornitori
Ma chi svolge il ruolo del visual merchandiser? C’è stata sicuramente un’evoluzione, racconta Gianfranco Giaco- ma Caire. Se negli anni Cinquanta e Sessanta, quando la vetrinistica sorse in modo consapevole, c’erano singoli professionisti che venivano chiamati dai negozi per allestire le vetrine, soprattutto sotto Natale o San Valentino, ora molto è cambiato. Anche se non c’è un approccio univoco.
Sono sicuramente rimasti i singoli free-lance, ma ci sono anche studi composti da più professionisti, non più di 10-15 persone in tutto. «Le aziende in questo campo saranno una ventina, tra grandi e piccole», commenta, e non ci sono particolari statistiche per avere raffronti. Le grandi catene di retail hanno poi i loro visual merchandiser interni. «Quelle legate alla moda hanno tutte una struttura di visual – aggiunge Licari –. Può essere una sola persona o una squadra, si può arrivare a cento persone».
 

All’interno del punto vendita, al visual merchandiser, che cura il progetto (o lo affida a una società terza) e lo fa eseguire, rispondono diverse figure: i vetrinisti, gli illuminotecnici, i pittori, e le persone specializzate nelle vetrofanie. Difficilmente sono persone interne, soprattutto nel caso di catene. Quando un’insegna di queste fa un progetto, uguale per tutti i punti vendita (per San Valentino, ad esempio), si rivolge a diverse aziende specializzate sul territorio. In mezzo ci sono i fornitori dei materiali, che li producono su progetto dei visual e li fanno portare presso i negozi.
Il ruolo dei fornitori non è pero solo passivo, come dimostra il caso della società A4A, che realizza oggetti di arredamento e design del tutto particolari, in cartone, per studi, fiere e negozi. «Collaboriamo spessissimo con i visual interni alle varie aziende – spiega Giovanni Rivolta, socio, con Nicoletta Savioni, dell’azienda –. Il visual parte dando o dei bozzetti o semplicemente un’idea che rappresenta l’azienda per cui lavora. Noi poi lavoriamo per creare concretamente gli oggetti, dopo aver realizzato dei render, o visualizzazioni. Tanto è più astratta l’idea, tanto più per noi è facile intervenire. Altrimenti scardina il nostro ruolo di designer. L’anno scorso un’azienda ci ha proposto, ad esempio, il tema del surf. A partire da quello abbiamo scelto una serie di elementi, dai coralli alle tavole ai pesci».
Una tendenza forte degli ultimi anni, spiegano i due esperti, è che nei department store il lavoro degli allestitori interni, che fino a pochi anni fa avevano degli appositi atelier, è stato progressivamente sostituito da quello dei marchi esposti, ciascuno dei quali replica dei propri modelli, adattandoli al contesto di riferimento. Quanto alla formazione dei visual merchandiser, essa è piuttosto varia. Così la vede Licari: «Per chi vuol fare il visual merchandiser, avere una dote iniziale innata è necessario.
Avere cioè potere nel riconoscere equilibri in quello che vediamo, proporzioni, armonia. Detto questo, il visual merchandising permette approcci diversi, perché è compreso tra arte, marketing e psicologia. Ho conosciuto dei visual molto tecnici, pratici e non necessariamente predisposti all’arte. Poi è necessaria una preparazione tecnica, all’inizio teorica e poi pratica. Nei corsi triennali riservati ai neodiplomati, spiega Licari, ci sono ragazzi provenienti da licei o istituti tecnici. In quelli serali ci sono o persone che sono già visual o che fanno altro e vogliono cambiare vita».
F.P.

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